I primordi

Particolare di pittura parietale raffigurante dei pesci in una tomba egizia
Prima dell’avvento dell’agricoltura, la sopravvivenza dell’uomo si fondava sulla disponibilità di selvaggina, radici, bacche, frutti e pesci. L’imprevedibilità del clima e le migrazioni degli animali selvatici fecero di questi ultimi la fonte più affidabile di proteine e grassi nell’alimentazione degli uomini preistorici. Inoltre il pesce forniva aminoacidi essenziali e acidi grassi che le piante non potevano dare. La carne di pesce era tenera per natura e richiedeva pochissima cottura. Di conseguenza non sorprende affatto che, con l’evoluzione della civiltà, le prime comunità siano state fondate lungo fiumi o sulle rive di laghi e oceani. Innumerevoli sono le raffigurazioni tombali che ci rendono edotti sulle tecniche di pesca, di pulitura del pescato e dei suoi sistemi di conservazione. Nei fiumi si pescavano barbi,carpe,anguille, pesci siluro e, sulle rive del mare, testuggini marine e pesce bianco. La tecnica di pesca più usata era quella con le reti, a strascico o fisse. Organizzando vere e proprie battute per spaventare e spingervi il pesce, come nelle moderne tonnare, gli Egiziani lo catturavano poi con arpioni e bidenti, o con nasse piazzate lungo il fiume. I ricchi Egiziani e Babilonesi disponevano inoltre di vivai, ottenuti deviando il corso delle acque in bacini chiusi, in cui allevavano pesci e molluschi.

L'età greca

Riproduzione di pesci. Piatto, IV sec.a.C. Museo Archeologico Nazionale, Napoli
Dobbiamo però arrivare all’età greca per avere notizie certe sul consumo di questo alimento. I Greci chiamavano “opson” il companatico in genere, e il termine indicava qualsiasi cibo solido, dalle olive, ai legumi, alle cipolle, alle carni, al pesce e persino i dolci. L’opson più frequente era certamente il pesce, e il suo mercato aveva un posto predominante nell’agorà (il luogo dove si svolgeva la vita pubblica della città). V’erano pesciolini di poco prezzo e pesci più grandi, alcuni molto costosi, d’acqua dolce e salata. Il pesce si vendeva fresco o affumicato, o in salamoia: alici, acciughe e tonno. In molti vasi d’epoca micenea sono raffigurati polpi e calamari, seppie e conchiglie, e molluschi in genere. Ateneo, un grammatico greco del II secolo d.C. che visse a lungo a Roma durante l’impero di Marco Aurelio e Settimio Severo, ci ha lasciato il   “Deipnosophistarum sive coema sapientum” in quindici libri, un’opera molto interessante non solo come documento della cucina a lui contemporanea, ma specialmente perché riporta alcuni frammenti degli scritti di Archestrato , poeta epicureo vissuto in Grecia nel IV secolo a.C. L’opera di Ateneo offre un vasto panorama della letteratura gastronomica precedente fornendoci citazioni di circa 1500 opere scomparse e 700 nomi di autori che sarebbero altrimenti rimasti del tutto ignoti. Veniamo così a sapere che il tonno veniva tagliato a pezzi e arrostito, insaporiti con sale e irrorato d’olio, infine fatto marinare in una salamoia piuttosto piccante. Il pesce spada migliore veniva da Siracusa mentre le triglie di Mileto erano le più pregiate: si preparavano con formaggio, irrorate d’olio, cosparse di sale e di cumino, cucinate in forno. L’orata veniva arrostita spruzzata d’aceto e con l’aggiunta di un filo d’olio e le anguille si mangiavano cotte sulla brace e avvolte in foglie di bieta, mentre le aragoste venivano tagliate per la lunghezza e cucinate alla griglia senza nessun altro condimento che un pizzico di sale e un filo d’olio. I pesciolini minuti, infine, venivano fritti in olio con ortiche di mare e pisellini dolci.

L'epoca Romana (uno status symbol)

Particolare di mosaico II - I sec. a.C., Napoli Museo Archeologico Nazionale
I prodotti del mare, che in Grecia erano stati una delle principali attrattive della tavola, entrarono piuttosto tardi nell’alimentazione romana, ma una volta comparsi, divennero una delle ghiottonerie più dispendiose e ricercate. In periodo imperiale si spesero fortune per procurarsi esemplari eccezionali. Il famoso Apicio, celebre gastronomo amico di Tiberio, informato da fonte non molto affidabile che sulle coste libiche si trovavano gamberi grandissimi, armò addirittura una nave e affrontò i pericoli e i disagi della navigazione in un’epoca in cui attraversare il Mediterraneo non era uno scherzo. Prima ancora però che potesse attraccare alla costa africana, i pescatori, avvisati del suo arrivo, si precipitarono festanti a portargli le loro ceste colme di gamberi. Apicio, dall’alto della nave, diede ai crostacei una rapida occhiata, ma visto che non c’era nessuna differenza con quelli di casa, diede ordine di virare e, senza neanche toccare terra, tornò indietro disgustato. Sarebbe troppo lungo fare l’elenco di tutti i pesci che, volta volta, furono considerati il non plus ultra dai buongustai romani: spigole, murene, e soprattutto triglie. Poi c’erano i crostacei, le gigantesche aragoste e, per le grandi cene, le ostriche, che non mancavano mai. Alcuni buongustai come un certo Montano, contemporaneo di Nerone, si vantavano addirittura di riconoscere al primo morso se un’ostrica proveniva dal lago di Lucrino (Napoli) o fosse stata raccolta sui fondali del Circeo (Latina). E che dire dei ricci di mare, tra cui ottimi per i Romani erano quelli provenienti da Miseno (Napoli). Il popolo, che, dato l’alto costo, mangiava carne raramente, si nutriva di una grande quantità di pesci di modeste dimensioni e qualità, il più delle volte salati e conservati. Sulla mensa del ricco il discorso era ovviamente diverso e il pesce, nelle varietà pregiate della sogliola, orata, triglia, murena, anguilla, rombo ecc., era sempre presente. Per poter rifornire la cittadinanza del pesce di cui era ghiotta, furono approntati nei mercati vivai per i tipi sia d’acqua dolce sia di mare. Si prescriveva che i pesci grosse dimensioni dovessero abitare in vivai dal fondo sabbioso ed essere nutriti con altri pesci più piccoli e freschi. Per le conchiglie e i pesci piatti, tipo sogliola, si preferiva il fondo limaccioso e un’alimentazione a base di formaggio, frutta e interiora di pesce.

Follie ittiche

Mosaico romano del II sec. con i Pesci proveniente da Thysdrus (El Djem in Tunisia)
Una triglia passata alla storia è quella regalata a Tiberio: dono prezioso che questo imperatore dai gusti semplici e modesti rifiutò di mangiare preferendo trasformarla in moneta sonante, e che quindi mandò al mercato perché vi fosse venduta. Tiberio non poté però trattenersi dal commentare il suo ordine esclamando: “E che io possa essere dannato se questa triglia non se la comprerà Apicio oppure Ottavio!”. Ci fu effettivamente un’asta fra i due. Vinse Ottavio, che pagò cinquemila sesterzi (l’equivalente di tremilacento euro di oggi) ricevendone grande considerazione perché, oltre ad aver comprato un pesce venduto dall’imperatore, aveva sconfitto il rivale. Comunque, queste cifre non furono le più alte registrate. Infatti l’imperatore Tiberio si indignò ancor di più quando tre triglie furono pagate addirittura trentamila sesterzi. Bisogna anche dire che i pesci in questione non erano le triglie di scoglio, che noi ben conosciamo, ma animali molto grossi che arrivavano a pesare anche due chili e oltre. Le murene, dal canto loro, erano allevate in grosse vasche e si dice che talvolta venissero nutrite con carne umana. Seneca racconta di un signore ricchissimo e particolarmente efferato, il quale, ogni qualvolta uno schiavo rompeva una coppa o una tazza murrina (di un composto speciale bellissimo che pare migliorasse il sapore delle bevande), detto fatto lo faceva gettare in pasto alle murene. Giulio Cesare, che era contrario a queste brutali esibizioni, un giorno si trovò in casa di un tipo simile (non si sa se fosse lo stesso citato da Seneca o uno che gli somigliava), ed ecco che un piccolo schiavo ti rompe una tazza murrina. Solito rituale crudele, Lo schiavetto, poverino, strilla e implora pietà. “Lascia correre...” dice Cesare al padrone di casa. Ma costui sembra inflessibile. Cesare esorta, prendendo a cuore la sorte del poveretto. E quello non recede....Allora Cesare si arrabbia e, visto che se lo poteva permettere, fa liberare lo schiavetto e gettare nella vasca delle murene tutte le tazze e le coppe murrine della casa preventivamente frantumate.

Medioevo, tempo di penitenza

Stemma di una delle prime organizzazioni di pescatori
Dopo la caduta dell’Impero Romano l’interesse per i pesci commestibili e le varie salse diminuì temporaneamente. All’inizio, alcuni dei primi cristiani evitavano il pesce in quanto associato a Venere, dea pagana (si dice che l’identificazione del venerdì come il giorno in cui i cristiani mangiavano pesce derivi dalla tradizione romana di adorare Venere in quel giorno), ma sotto la crescente influenza della Chiesa di Roma ne viene incoraggiato il consumo. L’osservanza cristiana della Quaresima e i vari digiuni religiosi (si calcola che nel Medioevo i giorni di magro assommassero a 130 l’anno) ripristinarono interesse per un’adeguata preparazione di piatti a base di pesce. Dalla fine dell’Impero Romano, a causa della conseguente interruzione del flusso di spezie e condimenti esotici proveniente dalle più remote regioni del mondo, i piatti erano divenuti insipidi. Mentre i cuochi greci e romani avevano utilizzato olio d’oliva, gli europei del Nord introdussero il burro, e le erbe aromatiche locali sostituirono le più forti spezie esotiche dell’Oriente. Ben presto un bel piatto di pesce venne considerato più che accettabile. Tuttavia, chi viveva in comunità costiere poteva mangiare pesce regolarmente, mentre chi abitava nell’entroterra consumava quasi tutto ciò che si muoveva nell’acqua dolce, ma non ve n’era a sufficienza per tutti. Questo fino all’avvento del pesce conservato.

Pesce per tutti

Pesci essiccati all’aria e al sole
I pesci commestibili salati, affumicati o essiccati erano prevalentemente magri e potevano essere conservati tranquillamente fino alla Quaresima. Anche le aringhe erano disponibili, essendo dal VII secolo la principale merce di scambio. Fino al XIII secolo, le aringhe, con le viscere ancora intatte, venivano messe in ceste di vimini piene di sale e il loro valore di mercato dipendeva dalle condizioni climatiche e dal tempo necessario a smaltire le scorte prima che si deteriorassero. Sebbene oggi il pesce non sventrato o parzialmente sventrato non sia accettabile, nel Medioevo molti intenditori sembravano preferire il sapore “selvatico” del pesce non pulito. Intorno al 1250 i pescivendoli olandesi iniziarono a sviscerare l’aringa prima di salarla e di conservarla in barili pieni di salamoia, importante passo avanti che migliorò il trasporto di queste merci. Circa nello stesso periodo fu inventato un coltello che permetteva di sviscerare il pesce con un colpo solo e con un po’ di pratica la scorticatrice (nomignolo attribuito alla donna che sventra il pesce) avrebbe sviscerato 40 aringhe al minuto. Le donne lavoratrici, in collaborazione con le scorticatrici, mettevano il pesce nei barili. Con il grande sviluppo dell’industria ittica, i pescatori olandesi sventravano le aringhe e le caricavano sulle navi che navigavano nel Mare del Nord, lontano dalle regioni costiere in cui questa industria aveva preso piede. Nel XV secolo, nell’oceano Atlantico navigavano navi-fattoria di notevoli dimensioni che pescavano in tratti di mare mai sfruttati in precedenza.

Il "pesce che ha fatto la storia"

Giovanni Caboto (1450 - 1499)

All’inizio del XV secolo le navi inglesi navigavano verso l’Islanda per prelevare merluzzo essiccato al sole e all’aria, mentre altre veleggiavano nell’atlantico nel corso di spedizioni di pesca che duravano più di sei mesi. I pescatori europei del XV secolo intraprendevano coraggiosi viaggi per mari sconosciuti e fu proprio durante uno di questi, nel 1497, che Giovanni Caboto, al servizio dell’Inghilterra, scoprì il Nord America mentre era alla ricerca di merluzzo. Riferì che “questo regno non avrebbe più dovuto servirsi dell’Islanda” perché le acque del Nord America brulicavano di pesci.

Al merluzzo fu conferito il titolo di “pesce che ha fatto la storia” e subito dopo la scoperta di Caboto flotte di navi olandesi, francesi, portoghesi e spagnole affollarono le acque intorno a Terranova. In un’unica stagione la Francia aveva schierato ben 300 navi nella zona dei Grandi Banchi, pescando e salando merluzzo per i mercati parigini. Per circa 300 anni il merluzzo fu la merce più importante del commercio internazionale, detenendo una posizione paragonabile a quella che conquisterà il petrolio alla fine del XX secolo.

Alla guerra per il pesce

Mappa del New England 1614
Inizialmente non si era presa in seria considerazione l’idea di colonizzare il Nord America: si pensava che il continente occidentale fosse l’ideale per pescare, ma nessuno voleva andarci a vivere. Nel XVII secolo, tuttavia, i pescatori inglesi cominciarono a rendersi conto che la costa rocciosa di quello che oggi è il New England era la zona ideale per essiccare il merluzzo. Le flotte di pesca rivali erano ben dotate di sale, merce piuttosto scarsa per gli inglesi che, per conservare il pescato, dovevano fare affidamento sul vento e sul sole. Nel giro di pochi anni i primi colonizzatori della Nuova Inghilterra avevano instaurato una redditizia attività d’esportazione specializzata in pesce destinato all’Europa. La competizione per il controllo della pesca lungo la costa nordamericana divenne la causa della guerra di successione spagnola e di quella dei Sette Anni. Entrambe assicurarono all’Inghilterra un maggiore controllo della zona dei Grandi Banchi, mentre le altre potenza europee furono gradualmente estromesse con l’eccezione della Francia, la quale mantenne una modesta ma solida posizione nelle piccolissime isole St.Pierre et Miquelon e sulla costa di Terranova.

La cucina di pesce nella fascia mediterranea

Opera di Bartolomeo Scappi, 1570
Un esame della conformazione geofisica dell’Italia dovrebbe portare alla conclusione che ci troviamo in condizioni ottimali per poter disporre di grandi quantità di pesce: abitiamo infatti una penisola allungata, con due grandi isole. Viceversa, da noi il pesce è sempre stato scarso e caro. Colpa del Mediterraneo, mare interno di misure troppo ridotte per consentire grandi migrazioni ittiche e la possibilità, per la fauna acquatica, di difendersi restando lontana dalle coste e dai suoi abitanti, e di moltiplicarsi come avviene negli oceani. Più o meno, anche le altre nazioni mediterranee si trovano nella stessa situazione. Questa carenza di prodotto fresco, aggravata, fino a poco più di un secolo fa, dalla difficoltà di conservare quanto restava nelle reti, e la richiesta, ancor più notevole nel passato di quanto non sia oggi, di cibi di magro, ha portato alla produzione di pesce conservato, dando origine a fasce di consumo ancora riconoscibili e nettamente differenziate soprattutto a livello europeo. Una considerazione fondamentale e abbastanza sorprendente: quattro secoli fa, i pochi privilegiati in grado di disporre di buona borsa e valorosi destrieri, potevano contare su una disponibilità di pesci conservati forse maggiore di quella attuale. Bartolomeo Scappi, cuoco papale, nell’anno 1570 ci fornisce un catalogo di quelle delizie: carpione del lago di Garda avvolto in foglie e fatto affumicare, lomboli, ossia filetti di storione sotto sale, portati da Alessandria d’Egitto a Venezia, salmone in salamoia, proveniente da Fiandra e Borgogna, semplici boghe elaborate, a Genova, con foglie di mortella: in più il tarantello, ossia   la ventresca di tonno sotto sale, e le aringhe, bianche o affumicate. Il catalogo delle delizie marine e fluviali è completato dal caviale, che Scappi riceveva da Alessandria d’Egitto (nella valle padana le corti rinascimentali si riservavano invece il caviale del Po). Per quanto riguarda le aringhe, dominatrici del Nord Europa, noi italiani le accettiamo, ma senza entusiasmarcene troppo. troviamo una piccola fascia, ma sarebbe meglio parlare di isola, dell’aringa nel Veneto, mentre il pesce olandese affumicato diviene provvista al seguito dei carbonari al lavoro sull’Appennino. Le nostre preferenze vanno senza esitazione all’altro pesce conservato che determina una fascia di consumo europea: il merluzzo, nelle sue versioni di baccalà e stoccafisso. La fascia di consumo è vastissima, e con netto carattere mediterraneo. Inizia, quest’area di accettazione, nella penisola iberica, con i “bacalao” spagnoli e portoghesi; prosegue, come già accaduto per il pomodoro, lungo la costa meridionale della Francia, dove si determina una specie di gemellaggio non dichiarato fra la “brandade de morue” di tutta la Linguadoca, con epicentro a Nîmes, e il “baccalà mantecato” veneziano; infine continua dalla Liguria al litorale toscano, e saltata l’Emilia, riaffiora nel Veneto e nelle Marche. Ad adottare il merluzzo conservato sono, di massima, le città marinare, dove si presuppone che i naviganti, per i quali il baccalà era cibo di cambusa, avrebbero dovuto odiare, una volta scesi a terra, quella materia rima arida, tigliosa e di sapore monotono. Invece è proprio là dove il pesce fresco non dovrebbe mancare che quel cibo venuto da lontano, e del tutto estraneo alle nostre fonti di produzione, si afferma. Il pesce azzurro viene utilizzato, salvo qualche eccezione, soprattutto come complemento di molti piatti, purché sia stato messo sotto sale. La fascia alimentare che affratella il maggior numero di popolazioni dell coste mediterranee è, senza dubbio, quella che include nelle gastronomie locali le composizioni di pesci di varie specie, cucinati assieme, con poche verdure, aromi e, condimento indispensabile, l’olio d’oliva. Per semplicità, queste composizioni si possono definire zuppe di pesce: ma ogni paese, e, a loro volta, le diverse regioni, hanno quasi sempre adottato nomi particolari, validi anche per poter riaffermare che il loro piatto è del tutto diverso, e ovviamente molto migliore delle solite zuppe di pesce preparate dagli altri. Al pari di altre ricette basate sullo stesso principio, anche le zuppe di pesce, una volta incontrato il favore di molti, si sono raffinate, e si avvalgono oggi, se c’è chi è disposto a spendere, anche di ingredienti costosi, come astici, aragoste e pesci pregiati. La fascia mediterranea inizia in Spagna con la “cazuela de pescado y mariscos a la catalana”. Tecnicamente, i piatti spagnoli sono più completi, per due ragioni: possono utilizzare i pesci sia del Mediterraneo sia dell’Atlantico, e i diversi componenti vengono prima cucinati, da soli, nell’olio, quasi una frittura, e poi portati a completa cottura con l’aggiunta di pomodori, sherry e brandy. Tra gli aromatizzanti, oltre all’aglio, sempre abbondante in Spagna, al “pimento”, ossia il peperoncino, alle erbe fresche e secche, anche lo zafferano. Merito della capacità dei francesi di darsi da fare per essere proclamati sempre i primi, e della tradizione locale, la zuppa più celebre è, senza dubbio, la “bouillabaisse”: epicentro a Marsiglia , diffusione dal confine spagnolo a quello italiano. I testi sacri prescrivono di preparare questo piatto per non meno di sette o otto commensali, usando almeno 14 qualità di pesce. Indispensabile la “rascasse”, il nostro scorfano o pesce cappone. La composizione, in pentola, viene predisposta a strati: erbe, pomodori, pesci a polpa compatta, il tutto bagnato in abbondanza con olio e acqua bollente in cui si è sciolto lo zafferano. Dopo cinque minuti di ebollizione si sovrappone il pesce di polpa tenera. Altri dieci minuti di fuoco, poi si passa alla presentazione: in un piatto la piramide di pesci rimasti interi o tranci intatti, in una zuppiera il fondo di cottura, passato al setaccio. Crostoni di pane essiccati nel forno e insaporiti dall’aglio strofinato in superficie, con un’aggiunta, facoltativa, di “rouille”, la forte maionese all’aglio. Talvolta il turista resta male quando, letto sulla lista “soupe de poisson”, la ordina, e si vede arrivare in tavola non una zuppa come l’intendiamo noi, ma un passato di pesce, molto liquido, in cui navigano talvolta pochi vermicelli. È l’equivoco fondamentale tra noi e i francesi. Superata la frontiera le due formule restano, ma i nomi cambiano. Anche se, per ragioni turistiche, i ristoranti delle due riviere offrono, genericamente, la zuppa di pesce di tipo usuale. I testi fondamentali distinguono invece la “buridda”, ossia pesci in tocchetto, cucinati con gli ingredienti soliti prediletti dai liguri (funghi secchi, acciughe sotto sale e pinoli) dal “ciuppin”, un passato molto simile alla “soupe”. La riviera di Levante e lo Spezzino mettono in risalto composizioni specializzate, come la “zuppa di datteri di mare”. Si ritorna invece alle combinazioni tradizionali in Toscana, con il “caciucco”. Nomi e composizioni variano lungo le coste dell’Adriatico, dove si parla, genericamente, di brodetto. Rivendicazioni e rivalità dividono invece la Romagna del litorale e le Marche. Quasi ogni spiaggia romagnola ha il suo “brodetto” esclusivo, da contrapporre alle patrie del rivale marchigiano, e cioè San Benedetto, Porto San Giorgio, Porto Recanati, Numana, Falconara e Senigallia. Si riparla di zuppe di pesce in Puglia, dove a Taranto prevalgono, nell’assortimento, le conchiglie locali, e in Sicilia. Tuttavia queste composizioni hanno ormai tale carattere di attrattiva turistica da rendere difficile l’identificazione di una ricetta spontanea. La fascia riprende, dopo un intervallo, nell’ex Iugoslavia, con la “ciorba” greca e mediorientale: anche qui, passato il pesce minuto, con l’aggiunta di trance maggiori, fatte sobbollire a parte; il tutto in bianco, con erbe odorose e aggiunta di “avgolèmono”, la salsa di uova crude battute con succo di limone, prezzemolo e pepe.

Il pesce d'acqua dolce

La pesca nelle acque interne: fiumi e laghi, in epoca Medioevale

Il Passaggio dalla civiltà romana a quella medievale porta anche a un diverso orientamento di consumi nel settore ittico. Nei secoli aurei della Repubblica e dell’Impero, Roma dà vita a un’organizzazione produttivo-commerciale, estesa dai grandi allevamenti ai corrieri in grado di trasportare merce fresca con grande rapidità, che favorisce il consumo dei pesci d’acqua salata. Nel Medioevo ciò diviene impossibile. Si ripiega allora sul pesce d’acqua dolce, sia spontaneo sia allevato. Infatti, la richiesta di pesce è molto forte, soprattutto per poter osservare le regole sul digiuno ecclesiastico. Da ciò una notevole attività, sui fiumi e laghi, di quanti si dedicano per mestiere alla pesca, e la nascita, soprattutto a favore dei conventi, dei privilegi relativi. Tutto questo ha determinato la formazione di una grande fascia di consumo, localizzata nella valle padana. Cosa logica, in quanto gran parte della civiltà italica si è sviluppata qui, soprattutto intorno ai grandi laghi e lungo il corso del Po, fino al delta. Territori, questi in cui la pesca è agevolata e il prodotto può giungere sui mercati in condizioni ottimali, anche senza dover ricorrere a trasporti veloci. Per bontà di prodotto, ma anche per prezzo elevato, dovuto ai pochi esemplari pescati, si determina una divisione fra pesce nobile e plebeo. Alla categoria più pregiata appartengono lo storione, il luccio e la trota. Il primo vive nel Po, raggiunge talvolta dimensioni eccezionali, e ha inoltre un prodotto derivato di grande pregio, il caviale. Tutto questo ne fa oggetto di privilegi. Si può citare, a questo proposito, un editto del vescovo di Ravenna che impone ai pescatori di riservargli tutti gli storioni lunghi più di quattro piedi, e cioè circa due metri. In Inghilterra era addirittura il re a pretendere un diritto di preferenza per quei grandi pesci. Un gradino più sotto nella scala dei valori gastronomici veniva il luccio, considerato con attenzione anche per la sua ferocia di “pescecane d’acqua dolce”. Caso ben diverso per la trota, simbolo della fauna ittica lacustre e, in misura minore, di quella dei torrenti di montagna. Per sapore, appetibilità, modesta quantità di spine, la trota è stata, nei secoli, la regina dei laghi, stabilizzando una fascia omogenea di consumo grazie anche alla scarsa varietà di ricette, limitate alla sobbollitura o alla cottura nel burro o sulla griglia. Per disporre di queste specie pregiate era però necessario poter contare su una flottiglia da pesca lacustre ben organizzata. Logico che tutta la manodopera al lavoro nei secoli andati non si limitasse alle catture importanti, ma cercasse di utilizzare nel modo migliore tutto quanto restava impigliato nelle reti. Così, si potrebbe dire in parallelo con il pesce azzurro del mare, anche le acque dolci hanno i loro pesci a buon mercato: sardine del Garda, negli altri specchi acquei l’agone, grande e piccolo, da cui si ricavano pure cibi consumabili in tempi lunghi, e accettati, specie un tempo, quali piatti di Quaresima: i pesciolini fritti e conservati poi in carpione e quelli essiccati. Un tempo ritenuto cibo popolare e ora promosso a piatto di prezzo elevato, era il pesce persico nostrano. Un discorso a sé meriterebbe l’anguilla. per il suo carattere ibrido, quale specie marina e d’acqua dolce. Anche il bisato, per chiamarlo col nome veneto, ha avuto molta più importanza nei secoli del “grande magro” di quanto non ne abbia oggi. A completare il quadro del pesce diffuso, restano i nomi e i ricordi dei pesci comuni: l’alborella (anche in questo caso un pesciolino da friggere), il cavedano (polpa di sapore mediocre, in quanto viene da un una specie chiamato anche il netturbino del lago, e troppe spine), la bottatrice e il barbo. Un fenomeno interessante è dato dall’arrivo e acclimatazione, nell’ultimo secolo, di specie estranee alla nostra fauna lacustre tradizionale, fatte giungere da lontano e messe a dimora in allevamenti per essere poi, in molti casi, diffuse nelle acque libere. Ciò è avvenuto, anzitutto, con la trota iridea, quella con la pelle a tratti rosata e iridescente, giunta dall’America in Europa sul finire dell’Ottocento e ora in piena attività riproduttiva negli allevamenti. Altri apporti americani sono il persico trota, il persico sole, e, vorace, prolifico e di scarso valore gastronomico, tanto che alcuni lo considerano più un danno che un buono acquisto, il pesce gatto. Sembra che la diffusione del pesce gatto abbia una strana origine. Nel 1904, pochi esemplari che si trovavano, come pesci da ornamento in una vasca, nel bolognese, sarebbero riusciti a scappare raggiungendo, per acque interne, il Po. Da allora non si sono più fermati. Altro estraneo, ma di origine europea, immesso per la prima volta nel lago di Como nel 1885, il lavarello, detto anche coregone, è entrato nel gruppo dei pesci pregiati, in parallelo con la trota e il persico. Per quanto riguarda i crostacei, un tempo i gamberi di fiume erano presenti in quantità enormi in tutto il Nord Italia ricco di acque correnti. Oggi sono scomparsi ed è facile dare la colpa all’inquinamento. Tuttavia, per la precisione, tra il 1876 e il 1880, una grande peste di gamberi, dovuta a un fungo microscopico, distrusse la specie in quasi tutta Europa.


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