Uomini e pesci 

Titolo: Uomini e Pesci
Autore: Gianni Roghi

Editore: Sperling & Kupfer Editori S.p.A., Milano

Anno di Pubblicazione: 1955, 1958⁴, 1963⁵

Genere: Tecnico, Manuale

Collana: Sportiva di Sperling & Kupfer

Note:

*Questo libro nella prima edizione del 1955 é presente nella Libreria di Morgan*

È la nuova riedizione di “Caccia subacquea - Pesci e fucili” che prende il nome definitivo di “Uomini e pesci” e appare sempre nella collana sportiva della Sperling & Kupfer che nel frattempo ha assunto, graficamente, la caratteristica copertina gialla.
Ne usciranno parecchie ristampe (nel 1963 è già giunto alla V°), sino a quella di grande formato con foto a colori e con disegni di Anna Pighini vedova Roghi, del 1971.
Questa prima edizione di “Uomini e pesci” è fondamentale perché per la prima volta viene espresso e sviluppato il concetto di “acquaticità”, un neologismo inventato da Gianni Roghi e diventato poi basilare in tutte le didattiche subacquee.

1955, Sperling e Kupfer- Milano; 232 pagine, lire 1200


Dalla prefazione:
La prima definizione del concetto di acquaticità.

“L’acquaticità è la virtù di trovarsi a proprio agio nell’elemento acqua e di sapersi valere con vantaggio delle proprietà fisiche che esso ci presenta.
Nuotare in modo perfetto a crawl o a rana, saper compiere anche un lunghissimo percorso sott’acqua, non significa affatto essere acquatici: significa, tutt’al più, essere in favorevoli condizioni per diventarlo. Un campione di stile libero ha probabilità di riuscire un subacqueo eccellente di ben poco superiori a chi sappia nuotare in qualche modo. Tra i migliori subacquei del mondo non ve n’è uno solo che sia stato prima o dopo un conosciuto atleta nella disciplina natatoria.
L’acquaticità non è una disciplina sportiva, non è neppure soltanto una tecnica: è un’attitudine, una condizione, una mentalità. Avevamo detto un istinto, anche se fabbricato. Il sentirsi a proprio agio nell’elemento acqua vuol dire molto di più del “non averne paura”: il non temere l’acqua è sempre una vittoria su uno stato negativo; ma noi, del nostro essere in acqua, vogliamo avere un concetto positivo. Non solo non la temiamo, ma ci stiamo meglio.
Quando un subacqueo è stanco, per istinto non sale in barca, ma si sdraia nell’acqua, che è qualcosa di più “che fare il morto”. E’ come sdraiarsi in un letto più cedevole di qualsiasi letto di piume, e la stanchezza, che è fatta di peso, sparisce proprio perché il peso si annulla.
Quando un subacqueo deve trasportare un corpo, un oggetto greve, preferisce farlo nell’acqua, poiché gli costa meno tempo e meno fatica. Quando un subacqueo riemerge dal suo elemento e sale in terra, subisce la sensazione immediata di trovarsi legato, impacciato, caricato di piombo: ritorna schiavo della legge dei gravi e ne avverte, ora, tutto il fastidio.”

Una citazione:
“Il peggiore nemico dell’aragosta non è l’uomo: è il polpo. Anni fa, alla Maddalena, alcuni vecchi e sapienti aragostai mi proposero in merito una specie di diabolico indovinello: “Se in una medesima nassa – mi dissero lievemente sogghignando – ci mettiamo un polpo, una murena e un’aragosta, tutti naturalmente indenni e di reciproche medie proporzioni, secondo lei, cosa succede?”. Io fui per rispondere subito: “Un putiferio”, ma subodorai l’inganno e rimasi con un risolino a mezzo. E infatti mi spiegarono: niente, non succede niente. I tre signori infatti, pur bramosi di balzare addosso alla propria vittima consueta, sono altresì terrorizzati dalla presenza del rispettivo nemico mortale: il polpo potrebbe abbrancare l’aragosta, immobilizzarla con i suoi tentacoli, paralizzarla con il suo liquido velenoso che sa iniettare sotto la corazza dei crostacei, disarticolarla infine col becco; ma mentre starebbe così battagliando verrebbe ingoiato dalla murena; la quale sarebbe felice di usare codesta attenzione al polpo, ma ben sa che l’aragosta, come d’uso, la inchioderebbe subito al collo con gli artigli, proteggendosi nell’armatura del suo morso venefico, e la “succhierebbe” adagio, adagio, come un sorbetto, lasciandole l’involucro della pelle flaccido ma intatto, tal quale un palloncino bislungo e sgonfiato; e l’aragosta arderebbe per desiderio di fare questo servizio alla murena, ma un’occhiata al polpo la ridurrebbe a più miti consigli.

E così, codesta nassa gonfia di ferocia, fame, odio e santa fifa, se ne rimarrebbe quieta e silenziosa quasi vi abitassero borghesucce triglie dai baffi all’Umberto.

Ha ragione Riccardo Bacchelli quando dice, in quel suo aure libretto intitolato “Lo sa il Tonno”, che l’unica occupazione delle aragoste è quella di contarsi le zampe. Le contano, una due tre quattro, cinquecento e diecimila volte, e ritornano a contarsele da capo appena smesso; e tutte insieme, nei loro buchi, pazientemente, per la vita intera. A guardare un’aragosta sott’acqua viene l’estro di compiere un inchino, portarsi la mano al cappello e chiederle, con urbanità: “Scusi, a che cosa Le serve quel garbuglio impressionante di chele, zampe, zampine, zampette, protuberanze, bitorzoli e cornini?”. La complicazione è la passione segreta dell’aragosta. Se fosse nata uomo sarebbe divenuta ingegnere meccanico, con un amore morboso per gli ingranaggi e le macchine prodigiose che non servono a niente. Mirabile animale! Ma forse è lui stesso perennemente stupito e preoccupato di sè, e di quell’esagerazione di cose regalategli da qualcuno: se le guarda, in fondo al mare, molto spesso al buio per la vergogna, muovendosi davanti agli occhi puntuti i suoi cinquemilaseicento piedi uno per uno, adagio adagio, e io credo in cuor suo disapprovando Madre Natura che, probabilmente, giunta al termine della creazione con ancora di riserva molti oggetti inutili, glieli ha affibbiati tutti insieme e un poco a caso. Perplessa, dubitosa, ci pensa e riconta, li studia e li rimira, e pare alfine che dica: “Che me ne faccio?”.

Dopo che, scorta l’aragosta nel suo buco, l’avrete bene osservata (se non lo farete, sarete proprio da bastonare) e vi avrete fatto sopra un pensierino, andate a tirarla su. No, niente fucilate: la rovinereste per nulla. Prendetele delicatamente le punte delle antenne, unitele in una mano sola e tirate adagio, senza scosse. L’aragosta uscirà a poco a poco dal buco. Siate fulminei, allora, ad acchiapparla sul dorso con la mano libera. Le vostre dita non arrivino sotto il torace, giacchè l’aragosta sbatte la “coda” di piastre, e potrebbe così colpirvele, lasciandovi un ricordo spiacevole. E tenetela forte, senza impressionarvi del brancicamento terribile di quelle sue quattordicimilatrecento zampe, zampette, zampine, eccetera eccetera...E buon appetito.”


                       Un immagine del volume aperto su una delle pagine (l’immagine è attiva).


Le immagini e i testi sono tratti dal sito ufficiale www.gianniroghi.it  si ringraziano per la collaborazione prestata, gli eredi di Gianni Roghi, Alberto e Tullia che hanno autorizzato la pubblicazione del materiale, ed Antonio Soccol che ha realizzato il sito, e concesso il materiale per realizzare questa scheda.

N.B.: I diritti, dei testi e/o delle immagini di questo libro appartengono alla casa editrice e/o all'autore (e/o i suoi eredi). La recensione ha il solo scopo di far conoscere una pubblicazione d'epoca, di difficile reperibilità, inerente argomenti di Caccia subacquea. Il testo della recensione è proprietà intellettuale dell'editore e/o autore (e/o i suoi eredi). Non può essere utilizzato senza il suo consenso e senza il consenso dell'Amministratore del sito morgansub.com.


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